1 – Un attaccabrighe, uno scontroso e l’inizio di una sfida
Un parcheggio. La freccia. La retromarcia. Il rumore sordo della lamiera che s’accartoccia. Il pensiero immediato alla moglie. No, questa volta al volante era lui.
Nedo Megale, buttafuori nella discoteca più sgarrupata della valle, appassionato di kickboxing e di calcio, vecchio terzinaccio che aveva fatto collezione di caviglie sui campi spelacchiati di tutto il circondario, scese di scatto sbattendo la portiera. Altro rumore di lamiera. Altro pensiero alla moglie. Di fronte, invece, ecco la sagoma imberbe di un ragazzino.
Megale aprì la bocca per dare sfogo a una litania di improperi. Invece della sua voce, però, ne udì un’altra, più giovane ma non meno aggressiva: «Guarda dove vai, vecchio!».
Rimase interdetto. Mai nessuno si era rivolto in quel modo a lui, Nedo Megale, buttafuori eccetera eccetera. Nessuno. Figuriamoci un pivello!
Cinque secondi per riaversi dalla sorpresa. Troppi. Quando Megale si sentì pronto per reagire, l’altro era già sparito. L’unica traccia rimasta erano le quattro frecce accese sulla Golf rossa infilata di sbieco nel parcheggio della vetusta Arena del Pellice.
Marino Paggi aveva una fretta indiavolata. Non poteva arrivare in ritardo proprio oggi. Aveva letto su Facebook l’annuncio una settimana prima: “Cerchiamo campioni”. Lui un campione lo era, naturalmente. Ma aveva fatto finta di infischiarsene, per non dare troppa importanza alla cosa, e ora era tardi, maledettamente tardi. Le selezioni potevano già essere concluse.
Col cuore che batteva forte spalancò un ingresso e s’infilò in un sudicio corridoio stretto. Guardò una dopo l’altra le squallide porte grigiastre che un tempo erano state bianche. Sull’ultima, un brandello di scotch sosteneva a malapena un foglio stampato in giallo e nero: AC L’Ora del Pellice, scritto in Comic sans.
Marino, agitatissimo, appoggiò tutto il suo peso alla maniglia. La serratura emise un lamento metallico: era chiusa a chiave.
«Cerchi qualcuno, pivello?». Questa volta Nedo Megale non si fece sfuggire l’occasione di parlare. Gustò una dopo l’altra le parole, dopo aver visto – in fondo al corridoio – il ragazzotto che lo aveva sbeffeggiato al parcheggio. «Sai, magari hai bisogno di me. Sono l’allenatore dell’AC Fonte Pellice», pronunciò dopo aver intinto la lingua nella cattiveria.
Marino Paggi sbiancò e per un attimo dimostrò molto meno dei suoi 18 anni. Pensò desolato: accidenti, sono fottuto. Poi il suo caratteraccio ebbe il sopravvento. E replicò, secco: «Cavoli tuoi, vecchio. Se non m’ingaggi perché sono più lesto di te a parcheggiare, quello che ci rimette sei tu». E fece per andarsene.
Uno, due, tre secondi. Mentre camminava, lento, verso l’uscita, aspettava con ansia che l’altro lo chiamasse, che gli desse l’opportunità di tornare indietro. Quattro, cinque, sei secondi. Era ormai a un passo dalla porta quando una voce stentorea lo fermò: «Hai cinque minuti per convincermi a non darti un calcio nel sedere, pivello!».
Marino Paggi si precipitò in ufficio e per cinque minuti si comportò come uno studente di Oxford, poi, nel provino sul campo, diede dimostrazione di tutto il suo talento. Aveva una voglia matta di passare la selezione. E quando Megale, impressionato dalle doti di palleggio del ragazzino, gli diede la mano, Marino gliela strinse in silenzio, ma ogni cellula del suo corpo stava gridando: «Prima o poi ti rimangerai tutta la tua arroganza, vecchio!».
«Prima o poi ti rimangerai la tua arroganza, moccioso!» pensò nello stesso momento mister Megale.
Il ragazzino era forte, niente da dire. Controllo di palla, visione di gioco e quella sfrontatezza irriguardosa che lo portava a provare qualsiasi cosa gli passasse per la sua testolina bacata da diciottenne: tunnel, tacchi al limite della propria area e ogni altro numero capace di far infartare un allenatore. Per forza: era evidente che aveva passato molto più tempo a giocare a pallone che sui banchi di scuola.
Ma quanti ne aveva incrociati di Marino Paggi in vita sua? Tutti uguali: talento pazzesco e testa di cavolo. Li vedeva la domenica pomeriggio in campo e la sera prima sui divanetti del locale, bicchiere da una parte e biondina di turno dall’altra, convinti nel loro delirio di onnipotenza adolescenziale di potersi permettere tutto. E invece ci sbattevano il grugno: o ti alleni seriamente e la smetti di fare il matto, o il campo te la fa pagare. Puoi avere il talento che ti pare: senza sacrificio, puoi tranquillamente dartelo in faccia.
Mister Megale sentiva che Marino Paggi sarebbe stato l’ennesima delusione, l’ennesima occasione mandata dal cielo e sprecata. In cuor suo, però, sperava che stavolta… In fondo era per quello che faceva il mister, no? Per trovare finalmente un Marino Paggi da sgrezzare e far diventare un diamante. E poi, ovvio, lo faceva perché con il vecchio Nedo aveva chiuso. Basta con il locale, basta con quella vitaccia: basta con notti passate attorniato da ragazze che sembravano scolpite nel marmo, notti al sapore di whiskey scozzese invecchiato 21 anni, che finivano all’alba nel bar di Pinerolo sempre aperto con i cornetti appena sfornati… Ripensò al whiskey scozzese che beveva sempre: aveva più anni di Marino Paggi. Sarebbe stata dura. Eppure, con pazienza e costanza, ne sarebbe venuto a capo.
«Prima o poi ti rimangerai la tua arroganza, moccioso» pensò. «E non mi chiamo più Nedo Megale se non mi farai vincere questo stramaledetto campionato».
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