16 – La badante e l’Albatros
L’acqua gelida della fontana le schizzò le mani e l’orlo della manica. Una sensazione sgradevole, che Dorina accolse con una smorfia. Chiuse il rubinetto incrostato di ruggine e sistemò tre crisantemi nel vasetto di plastica. Poi, tenendolo con due mani, le braccia tese di fronte a sé, percorse il vialetto, facendo scricchiolare i sassolini sotto le scarpe. «Ora sento freddo alle braccia per tanto tempo», pensò, sforzandosi di farlo in una specie di italiano, come se parlasse davvero con qualcuno.
La tomba della signora Giovanna era nel terzo ampliamento. «Seppellitemi nella terra», le aveva ripetuto all’orecchio ogni sera, per oltre un anno, dopo essere stata imboccata. Dorina aveva pensato che fosse un modo per ostracizzare la morte, per tenerla lontana. «Finché dice, è viva», commentava allegra con la famiglia dell’anziana donna, offrendo conforto e ricevendo indifferenza. Un giorno, però, Giovanna non disse nulla. Tacque ostinata e imbronciata finché il dottore ne constatò il decesso. I figli decisero per la tumulazione in un loculo in sesta fila, partendo dal basso. Poi dimenticarono la madre defunta e la sua badante, che rimase senza lavoro e senza compagnia.
«Ma noi compagnia ci facciamo ancora», disse Dorina, in cima alla scala metallica che consentiva l’accesso ai loculi più alti, fissando il piccolo vaso con i crisantemi all’anello di bronzo che sporgeva dal marmo. Giovanna, dal canto suo, continuava a tacere imbronciata dalla fotografia.
Dorina – ridiscesa nel vialetto – si avviò verso l’uscita del cimitero di Fonte Pellice, con le braccia umide e intirizzite. Qua e là, scorgeva qualche figura curva e indaffarata: erano tutte donne e avevano almeno tre volte i suoi anni. All’improvviso, però, notò una presenza fuori contesto. Un ragazzo con un lungo cappotto grigio era seduto con le gambe ciondoloni, come sul muretto di una piazza: solo che poggiava sul bordo di una pietra, elemento di un modesto monumento funebre carico di anni. Il passo scrocchiante di Dorina sui sassolini s’arrestò. Poi riprese, timido e lieve, in direzione del monumento.
Il ragazzo la sentì arrivare. Senza alzare gli occhi dalla lapide, stringendo le ginocchia a sé, disse semplicemente: «Lo chiamavano l’Albatros». Una figurina bronzea ritraeva un giocatore di calcio, proteso in un colpo di testa infinito, perpetuo, definitivo. Dorina si sedette sulla pietra, accanto allo sconosciuto. Guardò l’iscrizione: Rodolfo Merlo, 5 gennaio 1915 – 19 marzo 1937.
La sua storia non aveva il fascino dei racconti di Soriano: la Val Pellice negli anni del fascismo non era popolata di fiere e avventurieri, come le Ande o la Pampa descritte dallo scrittore argentino. «L’Albatros riuscì egualmente a far emozionare, per qualche anno, borghesotti e lustrascarpe, industriali e massaie – elencò il ragazzo –. Si narra che riuscisse a colpire di testa senza incrinare la perfezione della pettinatura. E segnava. In campo e fuori. Le ragazze come te si svegliavano rosse di vergogna, dopo averlo sognato». Dorina sorrise, divertita e per nulla turbata.
«Segnò più di settanta reti in tre campionati di Prima divisione e di Serie C con il Pinerolo. Così, nel 1936/37, le squadre piemontesi di Serie A misero gli occhi su di lui. E l’Albatros volò con eleganza di fronte agli osservatori dell’Alessandria, della Juventus, del Novara, del Torino…». Il ragazzo fece una pausa e finalmente si voltò verso Dorina. Aveva i capelli rossicci, un viso piuttosto anonimo e quando ricominciò a parlare increspò il naso in modo buffo: «All’improvviso, senza aver mai lasciato presagire nulla, senza aver mai parlato delle sue intenzioni, l’Albatros sparì. Ricomparve in Spagna, volontario, e morì pochi giorni dopo, nella battaglia di Guadalajara. La famiglia non volle mai sapere cosa lo avesse spinto a unirsi alle Brigate internazionali».
«Indifferente», disse quasi senza accorgersene Dorina.
Il ragazzo annuì. «Già. Gli costruirono questa tomba e lo dimenticarono. Credo di essere il primo a portargli fiori, da settant’anni a questa parte».
La ragazza gli porse la mano ghiacciata e strinse la sua: «Piacere. Dorina».
Lui non aspettava altro: «Io sono Fausto. Gioco nel Fonte Pellice. Domani andiamo nelle Marche per una grande sfida alla prima in classifica. Non sono bravo come l’Albatros, ma sono certo che segnerò un gol. E te lo dedicherò».
A Dorina scappò una risatina.
L’indomani il Fonte Pellice fu travolto 9-0 sul campo della capolista e Fausto Antonelli disputò una partita anonima, senza colpire la palla di testa neppure una volta.