3 – Il vero (e umido) inizio della storia
È opportuno riavvolgere il nastro e tornare indietro di circa cinque mesi, fino al giorno d’aprile in cui a Pierpaolo Boldi venne da dire: «Non ci sono più le mezze stagioni». Sul serio. La frase si fermò giusto in tempo, tra la lingua e i denti. Un’inchiodata da cartone animato. Se le parole, frenando, potessero sollevare polvere, dalla sua bocca sarebbe uscita una nuvoletta e qualche piccolo ciottolo verbale sarebbe precipitato dalle labbra.
Imbarazzato, guardò gli altri con un sorriso ebete. Nessuno ci badò. Entrarono, zuppi e trafelati, nell’unico locale aperto nel raggio di centinaia di metri. Li aveva sorpresi un nubifragio. Un attimo prima, quando avevano visitato la vecchia Arena del Pellice, lo stadio abbandonato in cui un tempo giocava la squadra della vecchia Filanda, il cielo era a malapena screziato di nuvole. Poi, all’improvviso, si era addensata una coltre color grafite. E giù acqua, tanto da intasare in pochi istanti i tombini. Erano stati costretti a saltare come antilopi tra un rivolo e l’altro, dall’esterno dello stadio al primo marciapiede.
Ferdinando Motti detto Ferdy fu il primo a indirizzarsi verso quel bar trattoria, per nulla intimorito dall’insegna anni ’70. Gli altri a ruota, come sempre. Una zaffata di stantìo li accolse all’ingresso. E poi un buio esagerato, che il grigiore del cielo non bastava a giustificare.
Ai tre amici parve che laggiù, dietro il bancone, fosse balenato un lampo, come lo sguardo di un animale selvatico. Fu un attimo: poco dopo era sparito. Si manifestò, invece, un vecchio. «Che volete?», bofonchiò con fare scontroso. Fu Nedo Megale il primo a vincere l’imbarazzo: «Piove», disse agitando le braccia muscolose a mo’ di giustificazione. «Cercavamo un riparo… e magari qualcosa da bere». «Di caldo!», intervenne Boldi, venendo subito apostrofato: «Macché, facciamoci una birra!».
Il vecchio grugnì, senza muovere un muscolo del viso. Poi si girò e si chinò per frugare sotto il bancone. Diedero un’occhiata in giro: sembrava che una macchina del tempo li avesse portati indietro di quattro decenni. La parte bassa delle pareti era coperta da una plastica marrone, di quella che sembra impossibile sia stata nuova, con gli interstizi tra le listelle nati apposta per accumulare gli umori del tempo. Uno specchio scheggiato agli angoli pubblicizzava la Peroni. Vecchi poster di calciatori fecero tornare alla mente di Megale l’epoca in cui leggeva il “Guerin sportivo” nella sua cameretta di ragazzo.
«Beppe Furino!», proferì Motti come se stesse partecipando a un quiz, puntando il dito verso la foto in bianco e nero di un atleta in bianconero. «Le vostre birre», replicò brusco il vecchio, e il suo sguardo esprimeva l’inequivocabile volontà di non aggiungere altro.
Boldi finse di non accorgersene e, versandosi la Moretti, si premurò di mostrare al barista il suo campionario di frase fatte sul tempo. La bionda scorreva sul vetro ormai opaco del boccale liberando una schiuma spessa e biancastra. Boldi – senza interrompere il monologo – alzò gli occhi verso il vecchio e notò immediatamente una certa somiglianza tra il volto, che sembrava scavato da migliaia di minuscoli torrenti di montagna, e il boccale usurato da infiniti lavaggi. Per un attimo gli parve di rivedere lo sguardo da animale selvatico, ma fu una sensazione talmente fugace da lasciargli il dubbio che si trattasse di suggestione. I due amici, intanto, deglutivano in silenzio il primo, generoso sorso di birra, sistemati alla meglio sugli sgabelli sfiniti del bancone.
«La pioggia ci ha sorpresi all’improvviso», continuò imperterrito Boldi. E intanto ne approfittava per scrutare le guance antiche del vecchio, appena imbiancate dalla barbetta. «Una volta, acquazzoni del genere erano tipici dell’estate», sentenziò assaporando tutto il piacere del luogo comune. Le labbra del barista erano serrate, quasi fremevano dallo sforzo. Chiunque avrebbe giocato venti euro sul fatto che non si sarebbero più aperte per almeno una settimana. E invece, d’un tratto, si mossero: «Sandro Salvadore», pronunciò il barista a voce bassa ma scandendo bene le parole.
«Come, scusi?», biascicò Boldi, sorpreso dal non trovare riferimenti meteorologici in quelle due parole. Il vecchio lo ignorò e si rivolse a Motti con asprezza: «È Salvadore. A Furino non somiglia neppure. Aveva sette anni di più. Era più alto di tredici centimetri. Giocava in difesa e non a centrocampo. Lo chiamavano Billy perché il suo idolo era Billy Wright, il centromediano dell’Inghilterra che schiantò 4-0 l’Italia al Comunale, nel 1948…».
Motti dovette ingoiare l’amaro boccone di aver perso malamente al quiz. La buriana gli passò in fretta, perché nelle successive due ore – con quel vecchio e i due amici di sempre – fu coinvolto nella più epica battaglia di ricordi calcistici della sua vita. Rispolverò – come Boldi e Megale – tutte le nozioni acquisite da ragazzo sfogliando Tuttosport sotto il banco, durante le lezioni più noiose. Ricorse alla memoria fotografica per citare dati e statistiche riportati a fianco della foto baffuta dei calciatori, sull’album delle figurine. Benedisse sua madre che gli aveva regalato quell’annuario del calcio, nel 1975, consumato a forza di consultare le pagine con la storia della Nazionale. Ma per quanto lui, Boldi e Megale s’intendessero di vecchie storie di pallone, non potevano competere con le esperienze dirette del vecchio barista: quando raccontava di Charles e Stacchini, Ferrini e Combin, sembrava parlasse di parenti stretti. Non ne rammentava solo le acrobazie sul rettangolo verde: si soffermava ancor più volentieri sulla loro vita fuori dal campo, tra bevute, risate e confidenze, come se lui fosse stato sempre presente.
Finirono per aprire una bottiglia di Roberto Voerzio, mentre il vecchio affettava del salame profumato. I tre amici lo misero al corrente della loro visita all’Arena del Pellice e del progetto di riaprire una squadra a Fonte Pellice. Una macchia di barbera impreziosì per sempre il foglio a protocollo su cui vergarono – un po’ ottenebrati dalle chiacchiere e dall’alcool – l’atto di fondazione dell’AC Fonte Pellice. Colori sociali: giallo e nero.
All’atto della firma, sotto i nomi di Pierpaolo Boldi, Ferdinando Motti e Nedo Megale, proprio vicino allo sbuffo di vino, il vecchio aggiunse il suo: Domenico Fenoglio.
«Io farò il segretario», disse con sicurezza Boldi, manco si trattasse delle previsioni del tempo per il giorno dopo. «Io potrei allenare i ragazzi», aggiunse Megale, che per anni aveva preso a calci la gente sia sul ring sia sul prato verde. «Io mi candido come presidente del Consiglio d’amministrazione», sorrise Motti, cui piaceva comandare senza averne le risorse. Poi soggiunse, un po’ più abbacchiato: «Manca solo un presidente vero, con i soldi…».
Fenoglio bevve un buon sorso di Voerzio. Poi sentenziò, misterioso: «So dove trovarlo. Anzi, dove trovarla».
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