L'Ora del Pellice

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5 marzo 1690: muore in esilio Gianavello, il “leone di Rorà”

Ginevra, otto del mattino del 5 marzo 1690 (il 15, secondo il calendario gregoriano non ancora adottato in molti Paesi protestanti). Muore a 73 anni, un’età piuttosto avanzata per l’epoca, il condottiero dei valdesi: Giosuè Gianavello. Chiude gli occhi in esilio, lontano dalla Val Pellice, dove aveva a lungo vissuto – in relativa agiatezza – lavorando la terra.
Nato nel 1617 al Liorato, tra la Val Luserna e Rorà, da una famiglia originaria di Bobbio Pellice, il suo vero nome era Giosuè Gignous: Gianavello era un soprannome che caratterizzava la famiglia paterna e pare che indicasse una “capigliatura folta”. Giosuè era un paysan come molti altri: persi entrambi i genitori quando aveva 17 anni, si sposò a 22 con la rorenga Caterina Durand e condusse un’esistenza serena e laboriosa, con la moglie e quattro figli.
La sua vita – come quella dell’intera comunità valdese – fu sconvolta dall’improvviso attacco militare condotto dalle truppe sabaude guidate da Carlo Emanuele Giacinto di Simiana, marchese di Pianezza. A 38 anni, il contadino Gianavello decise così di salire in quota per organizzare la resistenza: glielo imposero la sua fede e il suo senso di giustizia.
Era l’aprile 1655. Si trovarono di fronte un vero esercito, forte di 500-600 uomini e guidato da un esperto uomo d’arme desideroso di convertire i valdesi al cattolicesimo; dall’altro una banda di contadini, inizialmente una dozzina, orgogliosamente legati alla propria indipendenza e alla propria libertà. Le cosiddette Pasque piemontesi si tradussero in un massacro: Pianezza infierì sulla popolazione civile, distruggendo le case, massacrandone gli abitanti e rapendo i bambini. La conquista militare della valle poté dirsi conclusa a inizio maggio, ma il “leone di Rorà” e i suoi uomini, armati di fionde e (pochi) fucili, inflisse pesanti perdite al Pianezza e continuò, nei mesi successivi, a tenere in scacco le truppe sabaude. La tattica adottata da Gianavello sfruttava la conoscenza del territorio e si fondava su attacchi repentini operati da piccoli gruppi in grado di muoversi rapidamente.
Il condottiero fu ferito in una battaglia a difesa della sua base, posta al Vernè di Angrogna. Dalla vicina Francia, però, giunsero dei combattenti volontari. Furono soprattutto le pressioni diplomatiche di Luigi XIV a favorire una tregua, che consentì ai valdesi di vivere un periodo di relativa tranquillità. Tornato a fare il contadino – pur con alcuni incarichi in seno alla chiesa – Gianavello riprese le armi nel 1658, quando fu del tutto evidente l’intento dei sabaudi di proseguire nella persecuzione.
Condannato in contumacia dal Tribunale di Torino, Gianavello continuò a combattere facendo base al Ciarmis di Villar. Ogni tentativo di stroncare la guerriglia valdese fu vano.
Grazie alle pressioni del re di Francia e dei Cantoni svizzeri si giunse finalmente alla conferenza di pace, avviata il 17 dicembre 1663 a Torino e conclusasi con l’editto del 14 febbraio 1664. I valdesi ottennero il riconoscimento di alcuni diritti religiosi e civili, ma Gianavello e i suoi “banditi” furono costretti all’esilio. A Ginevra Giosuè divenne oste e commerciante d’acquavite, ma rimase un punto di riferimento per i valdesi, con frequenti contatti con le valli. Scrisse anche delle Istruzioni per i suoi correligionari, per indicare loro come organizzare la difesa in caso di ulteriori scorribande militari. Nel 1688-89 si prodigò tra mille difficoltà per favorire il Rimpatrio. Prima di morire, ebbe notizia della sua riuscita.

Immagine: Xilografia di Giosuè Gianavello realizzata da Paolo Paschetto negli anni ’20 del secolo scorso.

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