7 gennaio 1687: 2.750 valdesi costretti all’esilio
A partire furono poco più di 2.750 persone (secondo alcune fonti, per l’esattezza, 2.767), suddivise in tredici brigate. I primi valdesi cominciarono il difficile cammino verso la Svizzera il 7 gennaio 1687, quattro giorni dopo il cosiddetto “editto di liberazione” firmato di Vittorio Amedeo II, che in realtà – per loro – significava esilio. Nelle intenzioni del Duca di Savoia si concludeva così, per sempre, la storia della presenza protestante nelle Valli Luserna e Angrogna (Pellice), Perosa (Chisone) e San Martino (Germanasca).
La gran parte della popolazione valdese delle Valli era stata imprigionata l’anno precedente, dopo una serie di azioni cruente e di rastrellamenti che avevano coinvolto perfino le località più impervie e isolate. «Su una popolazione complessiva di 13.500-14.000 abitanti prima della guerra, circa 2.000 risultarono periti sui monti, o giustiziati perché catturati con le armi alla mano, o datisi alla fuga sui monti andando a ingrossare il numero di quelli che furono poi detti gli “invincibili” – afferma Giovanni Gonnet nella monografia Dalla Revoca al Rimpatrio –; un migliaio di fanciulli vennero affidati a privati od ospitati in collegi per essere cattolizzati; circa 2.500 persone vennero lasciate in pace perché cattolici o già cattolizzati; tutto il resto, da 8.000 a 8.500 individui, fu gettato in prigione!»
Condotti dapprima a Torre Pellice, Luserna, Bricherasio e San Secondo, poi trasferiti nelle carceri di Torino, Carmagnola, Ivrea, Verrua, Vercelli, Trino, Asti, Revello, Saluzzo, Fossano, Villafalletto, Benevagienna, Cherasco e Mondovì, i prigionieri erano stati decimati dalla scarsità di cibo, dalle malattie e dai maltrattamenti. All’emanazione dell’editto del 3 gennaio 1687 – concesso da Vittorio Amedeo II su pressione delle potenze protestanti europee – risultavano in vita solo più 3.700 superstiti, di cui circa un migliaio accettarono di abiurare e vennero perciò confinati nel Vercellese.
Tutti gli altri, come abbiamo detto all’inizio, partirono il 7 gennaio (e nei giorni successivi) per il terribile viaggio verso i luoghi dell’esilio, in Svizzera. Scortati fino alla frontiera dalle milizie sabaude, impossibilitati a tornare indietro pena la morte, lasciarono tutti il Piemonte dopo l’ultima tappa alla Novalesa, in Val di Susa, per poi valicare le alpi, percorrere la valle dell’Arc e la val d’Isère, e raggiungere Ginevra, dove già dall’anno precedente erano presenti dei fuggiaschi valdesi.
Il viaggio richiedeva in genere due settimane, anche per via della stagione invernale. «Le marce attraverso il Moncenisio e la Savoia furono le più gravose, per le difficoltà del percorso e per le intemperie, nella neve e nel fango, spesso a temperature bassissime: la brigata più sciagurata fu la quinta, con più di 80 morti per una tremenda tormenta sul valico alpino», scrive Gonnet. Complessivamente, all’arrivo a Ginevra, mancarono all’appello oltre 300 persone.
Gli esuli valdesi, accolti generosamente da Ginevra, furono poi distribuiti in altri Cantoni svizzeri: «A Berna e a Neuchâtel il 44%, a Zurigo il 28%, a Basilea il 13%, a Sciaffusa il 9% e a S. Gallo il 6%». Molti di loro vissero nella speranza di poter ritornare presto in valle. Organizzarono, perciò, due tentativi di rimpatrio, falliti, fino a quello, epico e glorioso, avvenuto nel 1689.
Fonte: Giovanni Gonnet, Dalla Revoca al Rimpatrio. Prigionia ed espatrio, Società di Studi Valdesi, 17 febbraio 1987.
Immagine: Una storica mappa delle Valli valdesi.