8 – Ci sono anch’io (sliding doors)
Giallo e nero. Quei colori ce li aveva tatuati nel cuore fin da bambino. Suo padre, sardo di Ploaghe, un paesino arroccato dietro Sassari, gli regalò una maglia del Vitesse per i suoi 8 anni. L’aveva recuperata chissà dove in uno dei suoi viaggi sulle navi merci di lunga percorrenza. Era di due taglie più grossa, con le scritte in olandese e senza numero né nome sulla schiena, ma a lui piaceva e sua madre doveva sventolare il battipanni in aria per fargliela togliere giusto il tempo di buttarla in lavatrice.
Per tutti i suoi amici, Riccardo, diventò “Paesi Bassi”, soprannome infame coniato mettendo insieme la provenienza di quella strana t-shirt a strisce giallo nere e la sua non eccelsa statura. Erano ancora lontani i tempi dello sviluppo e di quei 191 cm che a Ploaghe sorpresero un po’ tutti.
Ogni pomeriggio Riccardo infilava la divisa del Vitesse (sua madre gli aveva proibito di portarla a scuola “non è rispettoso”, diceva) e correva al campo di pallone vicino alla farmacia. Giocava ala destra, anche se a quell’età avere un ruolo preciso per più di 10 minuti era un’utopia. Non c’era una vera e propria squadra a Ploaghe, ma al campo ci venivano tutti, dai 3 ai 99 anni. I bimbi piccoli facevano il tifo, gli anziani, seduti sulle sedie di vimini portate da casa, urlavano qualche improperio rabbioso tra una mano a carte e l’altra, gli altri giocavano.
Fu quando inaugurarono la cava che Riccardo diventò portiere. La “cava di inerti vulcanici”, come era scritto sulla recinzione, era stata una concessione del sindaco per attirare nuovi investimenti nella zona, in declino da almeno un decennio. Bypassando almeno una dozzina di regolamenti ambientali e di sicurezza pubblica, la parete sud della grande voragine scavata dai bulldozer precipitava a meno di due metri dalla porta del campo da calcio rivolta verso Porto Torres e il mare. All’ennesimo pallone perso dopo un goal (nel 1998 le porte non avevano più la rete da almeno vent’anni), Riccardo si infuriò: “Basta, d’ora in poi lo faccio io il portiere! Voi non parereste nemmeno una mongolfiera”. Non ci furono obiezioni perché, si sa, da bambini nessuno vuole stare in porta.
Riccardo seppe mantenere fede ai suoi propositi e tra quei pali scrostati iniziò a divertirsi sul serio. Con lo scoccare del nuovo millennio, però, a sua madre venne assegnato un incarico da supplente annuale in Piemonte, in un paesino sperduto tra valli sconosciute. Con il padre sempre in viaggio per gli oceani, l’unica scelta possibile era seguire la mamma insegnante.
Il trasferimento a Fonte Pellice non fu complicato, nonostante i tanti amici che aveva lasciato in Sardegna. Per fortuna le montagne c’erano anche qui e anche un campetto dove farsi conoscere da altri coetanei. Il primo lunedì dopo il trasloco, non passò neanche da casa a mangiare e volò in direzione del prato verde. Aveva indossato l’immancabile maglia del Vitesse già a scuola (con il trasloco la madre si era un po’ ammorbidita) e non vedeva l’ora di farsi apprezzare per le sue uscite alte e i suoi tuffi agli angolini bassi. Qui una squadretta locale c’era, ma nonostante l’allenatore sembrasse interessato a quel quasi tredicenne che cresceva di statura a vista d’occhio (i suoi ormai erano costretti a comprargli un paio di scarpe da calcio a Natale e uno all’inizio dell’estate), non ci fu tempo nemmeno per tesserarsi. Dopo neanche un mese dall’arrivo a Fonte Pellice, infatti, il Provveditorato agli studi cambiò idea e assegnò la povera signora Manchìa a Novara. Altri scatoloni da imballare, altri ragazzi da conoscere, altri allenatori da convincere.
Per fortuna il suo carattere solare, equilibrato e sempre positivo non gli aveva mai creato inimicizie con i compagni di squadra, nemmeno con i più bulli. A Novara entrò subito in squadra e passò un’ora al telefono a raccontare al padre di come erano andati i provini e di quanto fosse importante essere stato scelto in una società così importante. Fu una delle poche volte nella vita in cui Alessio Manchìa maledì quel lavoro da girovago che gli impediva di veder crescere il suo unico figlio, un figlio eccezionale.
Contro ogni previsione, Riccardo e sua madre rimasero a Novara per undici anni. Il bambino bassino che arrancava sulla fascia aveva lasciato il posto ad un gigante strutturato e reattivo, titolare inamovibile. Con il numero 30 sulle spalle (lo stesso che portava Piet Hubertus Velthuizen, il portiere storico del Vitesse, suo idolo) nella stagione 2009/’10 aveva trascinato i suoi ad una storica Serie B che mancava da 33 anni. Nell’ottobre successivo, però, una pubalgia lieve, ma persistente lo aveva tenuto fuori dai giochi per un paio di mesi. Il suo secondo aveva giocato bene, impressionando tecnico e tifosi e quando Riccardo era tornato ad allenarsi con il gruppo, le gerarchie erano cambiate. Così aveva potuto soltanto gioire dalla panchina per l’incredibile promozione in Serie A. Un ritorno nel massimo campionato che a Novara aspettavano dal 1956 e che tutta la città aveva festeggiato per una settimana intera. Lui aveva sventolato la bandiera sul pullman scoperto sorridendo, convinto in cuor suo che la stagione successiva sarebbe tornato lui in porta per calcare i palcoscenici più prestigiosi, quelli che sognava quando ancora era nella sua Ploaghe.
Il destino aveva invece in serbo per lui una strada molto più tortuosa. Il 14 luglio del 2011 il suo procuratore era stato arrestato per tesseramenti falsi, frode ed evasione fiscale, quando stava per fargli firmare il rinnovo con il Novara. Il club azzurro si prese del tempo per decidere, lui passò giorni e giorni al telefono per cercare un nuovo agente, ma nel pieno del calciomercato in pochi gli risposero. Al gong della sessione si trovò svincolato, a 23 anni. La Spal gli offrì una possibilità in Lega Pro a metà settembre, complice l’infortunio della loro riserva, ma non giocò mai una partita. Iniziò così un peregrinare nelle serie inferiori alla ricerca di un contratto che di anno in anno vedeva diminuire gli zeri dello stipendio. Se al culmine della sua carriera aveva imposto alla madre di rilassarsi e non lavorare più, ora non riusciva più a mantenere neanche se stesso per cui la chiamata del Fonte Pellice durante la scorsa estate sembrò una benedizione. Poteva tornare in quel paesino che non aveva avuto modo di conoscere, ma gli era sempre rimasto nel cuore. Trovò l’accordo (rinunciando a una grossa fetta dei suoi bonus) per far assumere sua madre dalla società come aiuto magazziniera e si mise in auto verso quella che ancora chiamava “casa”.
Rimase immobile almeno cinque minuti buoni ripensando a tutti i passaggi della sua vita quando il nuovo allenatore, Nedo Megale, gli disse che il giorno dopo avrebbe giocato dal primo minuto. Gli consegnò la maglia del Fonte Pellice. Era giallo-nera, come quella del Vitesse, anche se questa non aveva le strisce verticali, ma soltanto una banda che dalla spalla sinistra gli scendeva verso l’anca destra. Titolare. Dopo non sapeva neanche più lui quanti anni da quella pubalgia maledetta che gli aveva segnato la carriera, ma non gli aveva tolto la speranza.
Trentadue, forse quaranta o sessantatre denti gli spuntarono dalle labbra nel momento in cui Megale annunciò la formazione. Aveva 27 anni, era nel pieno dell’attività di un calciatore e nonostante la Serie A fosse lontana sette o otto leghe, quella partita di Coppa Alpi gli sembrava fosse tutto ciò che aveva sempre sognato. Gigi Raso, 21enne portiere in rampa di lancio e titolare nelle gerarchie dettate a inizio ritiro dal mister, non era dello stesso umore. Lo poteva vedere, seduto due posti alla sua sinistra, livoroso come solo un giovane rampollo che vuole spaccare il mondo può essere nei confronti di qualcuno che ne minaccia il posto in squadra. Gli avrebbe parlato dopo, lo faceva sempre con tutti, per indole non poteva immaginare di essere antipatico a qualcuno.
Fu una serata indimenticabile. Match equilibrato davanti al pubblico di casa con tanti capovolgimenti di fronte, ma poche occasioni vere. Lo scenario ideale per un portiere di esperienza come lui che sa che bisogna rimanere caldi, attenti, lucidi. Perché l’istante che divide la gloria dalla disfatta può arrivare all’improvviso. Il suo giunse al 9′ della ripresa. Scambio rapido di due avversari al limite dell’area, il centravanti del San Isidro si incunea tra i due centrali difensivi, il pallone incollato ai piedi. È solo, praticamente un rigore in movimento. Riccardo rimane in piedi e aspetto, calmo come un capodoglio in caccia di calamari negli abissi marini. Avanza di un passo, poi di due: deve chiudere lo specchio della porta senza però rischiare di venire uccellato da un pallonetto malandrino.
L’attaccante lo scruta.
Finta
Calma
Contro finta
Calma. Resta in piedi
L’occhio del bomber saetta per un attimo verso il sette alla sua sinistra
Lo vedo. Calma
Tiro.
Lo slancio di Riccardo Manchìa è perfetto. Lui ha di nuovo 23 anni, sta per andare in Serie A, è un professionista vero. Titolare e col numero 30 a ispirarlo.
Ci arriva con la punta delle dita della mano di richiamo. Il pallone si alza verso la traversa, la supera. Boato degli oltre 400 tifosi accorsi all’Arena del Pellice. Tutti in piedi. Per lui.
Mentre i compagni di squadra lo abbracciano come se avesse segnato un gol, lui pensa già all’azione successiva. “La partita non è finita, dai ragazzi, con la testa!”, urla. Oggi è lui il leader, non importa se non giocherà tutte le partite di campionato, non importa se un ragazzino che ha la barba da meno tempo di quanto lui ci metta a radersela lo scavalcherà. Stasera Riccardo Manchìa è tornato. E metterà tutto quello che sa a disposizione del gruppo, del suo gruppo.
Finisce 1-0 per i padroni di casa, porta inviolata, “clean sheet” come dicono gli inglesi. La Fonte Pellice avanza in Coppa Alpi, stanotte si festeggia. “Serata libera – decreta il mister -, ma domani doppio allenamento. Non siamo qui ad asciugare gli scogli!”.
“Ti faccio vedere io come si para, rottame da ospizio”, sussurra velenoso Gigi Raso allontanandosi dai compagni che festeggiano ancora l’eroe di giornata. Sarà una lunga stagione…
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